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Christiane Singer (Marsiglia 1943 – Vienna 2007)
“Soltanto quel che arde”
“Un gentiluomo una sera, costretto ad una sosta, chiede ospitalità in un castello. Il padrone lo riceve convenientemente.
Al momento della cena, nella grande sala appare da dietro le tende una donna vestita di nero con la testa completamente rasata che va a sedersi in fondo alla tavola per mangiare in silenzio. Le viene servito da bere in una coppa ricavata da un cranio umano le cui orbite sono state sigillate con l’argento.”
Georg Philipp Telemann (Magdeburgo 1681 – Amburgo 1767)
“Der Harmonische Gottesdienst”
«Ich bin getauft in Christi Tode»
Cantata per baritono, flauto traversiere e basso continuo (TWV1:820)
«Stille die Tränen des winselnden Armen»
Cantata per baritono, flauto traversiere e basso continuo (TWV 1:1401)
«Weg mit Sodoms gift’gen Früchten»
Cantata per baritono, flauto traversiere e basso continuo (TWV 1:1534)
«Ihr Völker hört, wie Gott aufs Neue spricht»
Cantata per baritono, flauto traversiere e basso continuo (TWV 1:921)
In un gioco di rimandi reciproci e contrappuntando musica e parola, Nihil nisi ardeat! è costruito come una trama di suggestioni letterarie e sonore, nate da due fonti lontane e autonome. Da una parte il testo Soltanto quel che arde di Christiane Singer (1943-2007), che ripercorre una novella cinquecentesca, la trentaduesima dell’Heptaméron di Margerita di Navarra, dall’altra quattro cantate sacre di Georg Philipp Telemann, tratte dall’Harmonischer Gottes-Dienst e risalenti al 1725-26. Dal turbamento nasce l’opera della Singer, che, quindicenne, legge l’originale, ricavandone una sorta di “ossessione di vivere in modo piatto” e decidendo, anni dopo, di rivivere e dilatare quel turbamento. Nasce così il breve romanzo epistolare (costituito da due lettere di Sigismondo di Ehrenburg e una di Alba d’Ehrenburg al Signore di Bernage e da un quaderno di Alba d’Ehrenburg), in cui rivive quell’universo così lontano, “protocollare e violento, in cui la sottomissione prendeva tutti gli aspetti: gli umili dinanzi ai potenti, le donne di fronte agli uomini, le anime davanti a Dio”. Al centro la passione d’amore, come l’abisso più vertiginoso, ma anche esperienza mistica, “una vicenda di castigo che si trasforma in prodigio di perdono e riconciliazione”.
È l’obbligo liturgico, invece, a motivare la composizione dell’incredibile catalogo di cantate sacre (1400 circa quelle a noi giunte delle 1750 originarie) di Telemann, un corpus che ci mostra “l’altro volto” di un compositore vissuto in un’epoca di profondi mutamenti, già dominata dai due “giganti” Bach e Händel. Telemann rappresenta in quel contesto una terza via, a metà strada tra la profondità spirituale del primo e la vivace brillantezza del secondo, caratterizzata da una capacità mimetica prodigiosa e da un’enorme facilità compositiva, alla base di uno dei cataloghi più vasti e vari della storia della musica. Duttilità, curiosità, velocità di scrittura, cosmopolitismo, capacità di cogliere e anticipare le mode del momento, di fondere elementi anche contraddittori, di assecondare i gusti del pubblico, conoscenza diretta dei sistemi produttivi (concertistici, editoriali, impresariali) della musica, fiero attaccamento alle radici artigianali del proprio mestiere e innegabili qualità di artista vero: caratteristiche di una modernità sconcertante, eppure appartenenti a un compositore nato a nemmeno un decennio dalla morte di Heinrich Schütz. Se il repertorio strumentale sembra essere terreno d’elezione (in buona parte legandosi anche alle attività dei Collegium Musicum, istituzioni in cui si andava affermando un modo nuovo, laico e borghese, di fare musica), il catalogo di Telemann non trascura l’opera né la musica sacra.
In particolare, nei lunghi anni di Amburgo (dove Telemann arriva nel 1721 rimanendovi fino alla morte come Stadtkantor), l’obbligo di eseguire due cantate per ogni domenica, prima e dopo l’omelia, porta all’individuazione di un modello piuttosto agile, lontano da ogni magniloquenza.
Dei cinque cicli completi di cantate sacre pubblicati (una per ogni domenica e per ogni festa straordinaria) tra il 1725-26 e il 1748, l’Harmonischer Gottes-Dienst è la silloge più antica. Destinate a una sola voce, con uno strumento obbligato (a scelta tra violino, oboe, traversiere o flauto a becco) e basso continuo, le 72 cantate che lo compongono si articolano in due arie tripartite a incorniciare un recitativo centrale, adottando un modello che risente dell’influsso italiano e dello stile teatrale (va ricordato che Telemann ad Amburgo diresse anche il Teatro del Gänsemarkt fino al 1738). Solitamente eseguite dopo l’omelia, le cantate dell’Harmonischer Gottes-Dienst hanno con l’Epistola del giorno (raramente sostituita da un passo del Vecchio Testamento) un rapporto molto stretto. Le quattro prescelte sono rispettivamente destinate alla sesta e seconda domenica dopo la SS. Trinità, alla Pasqua e all’Epifania e toccano i temi del significato del battesimo come rinascita a nuova vita dopo la morte del peccato (Ich bin getauft in Christi Tode TWV 1:820), della generosità e carità fraterna (Stille die Tränen des winselnden Armen TWV 1:1401), del pasto pasquale che si fa eterno simbolo di salvazione attraverso l’Eucarestia (Weg mit Sodoms gift’gen Früchten TWV 1:1534), della luce che accompagna la nascita del Salvatore (Ihr Völker hört, wie Gott aufs Neue spricht TWV 1:921). Coerente con la sua visione, in una parola “moderna” della musica, Telemann non esita a sottolineare nel frontespizio dell’edizione a stampa (Amburgo, 1725-26) la “facilità e comodità” del repertorio (auf eine leichte und bequeme Ahrt also verfasset), destinato all’esecuzione pubblica in chiesa ma prima ancora – e significativamente – anche a quella “privata e casalinga”, aprendo a un uso devozionale intimo vicino allo spirito della corrente pietista del luteranesimo.
E qui il cerchio si chiude: la dimensione privata, scelta o costrizione, come in questi nostri difficili tempi, avvicina la particolare concezione di Telemann della cantata sacra all’occasione che fornì il pretesto per la narrazione delle novelle (anche queste, per un singolare scherzo del destino, in numero di 72) di Margherita d’Angoulême da cui muove la Singer. Un isolamento dal mondo motivato da qualcosa di ben diverso dal temporale primaverile dell’originale letterario – analogo al Decamerone boccaccesco – ma, come in quel caso, reso più leggero dal conforto dell’arte e della bellezza.
© Silvia Paparelli