Le variazioni ebbero certamente un peso diverso nei cataloghi pianistici di Haydn e Beethoven, sia strutturate in cicli autonomi che come parte di opere diverse o tecnica compositiva. Un uso parco e occasionale, legato ancora a un’idea ornamentale e all’estetica galante è per lo più quello che ne fece Haydn. Le sue Variazioni Hob. XVII:2 furono pubblicate come Arietta con dodici variazioni in la maggiore da Artaria nel 1789, ma ne esiste una versione in sol maggiore e articolata originariamente in venti variazioni, tradizionalmente ritenuta precedente (risalirebbe alla metà degli anni ’60, durante il servizio per gli Esterházy). Altri ritengono, invece, che la versione originaria sia proprio quella in la maggiore, “inquinata” da una storia editoriale un po’ spregiudicata e comunque al servizio di una prassi esecutiva piuttosto libera (di scegliere, accorciare, trasporre). Dopo il tema inziale, di colloquiale semplicità, sfilano, variazione dopo variazione, tutti gli artifici della tecnica tastieristica dell’epoca, con la consueta eleganza e solidamente al riparo da tentazioni esteriormente virtuosistiche.
Del tutto diverso fu il rapporto di Beethoven con l’arte della variazione: basti almeno citare il monumentum delle “Diabelli” o il ruolo che la sua personalissima rilettura dell’antica tecnica ebbe nelle pagine estreme del “terzo stile”. Prima di arrivare alla sublimazione delle opere ultime, le Dieci variazioni in si bemolle maggiore WoO 73 (1799) su “La stessa, la stessissima” dal Falstaff ossia Le tre burle di Antonio Salieri chiudono la ricca “produzione beethoveniana degli ultimi anni del Settecento, quelli della baldanzosa conquista dei circoli aristocratici viennesi e della committenza collegata con la grande editoria europea” (Carli Ballola). Beethoven, che non va dimenticato era ottimo pianista e, come tale, improvvisatore, protagonista di più di una “sfida” di quelle di moda all’epoca, muove qui da un’aria operistica, omaggiando l’italianissimo Salieri, autorità indiscussa della musica a Vienna in quegli anni, al quale lui stesso si era rivolto per carpire i segreti dello stile teatrale e della vocalità, quelli che Carli Ballola ironicamente definisce “gli insegnamenti più inutili che egli avrà mai ricevuto”.
Composta nel 1784 e pubblicata l’anno successivo da Artaria insieme alla Fantasia KV 475, che ne doveva forse costituire una sorta di introduzione (le due pagine sono accomunate dalla tonalità, dalla dedica e da una misteriosa lettera scomparsa che ne chiarirebbe la genesi), la Sonata KV 457, autentico capolavoro, è da sempre considerata la più beethoveniana delle sonate di Mozart (in generale, discendenza più che critica). Non solo per il medium del do minore, che accomuna le pagine più cupe e sofferte degli anni viennesi (tra tutte il Concerto KV 491) e che diverrà vera e propria categoria retorica beethoveniana, ma per la tensione drammatica e la profondità espressiva che aprono a un ideale passaggio di testimone (specie nei movimenti estremi secondo Alfred Einstein, nelle reminiscenze di quello centrale per Alfredo Casella).
Lo raccoglierà Beethoven alla fine del decennio successivo, con la sua celeberrima Sonata op. 13 (1798-99), opera tra le sue più note ed eseguite (forse persino troppo), spesso fraintesa come pagina sentimentale, essendo invece “patetica” nel senso tutto schilleriano di “forza tragica di rappresentazione”. Tralasciando i dettagli storici e analitici, anche questi forse fin troppo noti, basti qui ricordare l’audacia strutturale, espressiva, timbrica di una pagina che segna una serie densissima di primati (il Grave iniziale su tutti). Il resto lo farà la sua collocazione all’interno di questo intelligente programma, come detto, attraversato da più di un fil rouge: a voi scoprirne e gustarne la trama.